Nel dibattito sempre più acceso sul ruolo dell’intelligenza artificiale nella vita dei giovani e degli adulti, emergono numerose preoccupazioni. Tuttavia, a fianco di queste critiche, esistono anche motivi validi per guardare all’IA come a una risorsa potente, capace di affiancare, potenziare e supportare la vita di tutti i giorni. Ecco riflessioni punto per punto che valgono la pena di essere considerate.
1. Il chatbot come complice silenzioso e sempre disponibile
"Consultare l'IA è comodo, gratuito, rassicura, è disponibile sempre, e non costringe a rivelare segreti imbarazzanti a estranei."
Proprio qui sta uno dei grandi vantaggi dell’IA: la possibilità di un ascolto accessibile, immediato e non giudicante. Molti adolescenti/adulti vivono in contesti in cui mancano persone di riferimento o dove si sentono incompresi. L’intelligenza artificiale non pretende, non sminuisce, non impone. Fornisce invece un primo contatto, senza sostituire un percorso terapeutico, che può aprire alla consapevolezza e, nei casi migliori, favorire l’avvicinamento successivo a un aiuto umano. In un mondo in cui la solitudine giovanile e adulta è crescente, avere un alleato silenzioso può fare la differenza tra il parlare o il chiudersi.
2. L’assenza del corpo non è l’assenza di relazione
"Con l’IA manca il contatto fisico, l’odore, la presenza vera. La relazione terapeutica è un’altra cosa."
Certamente, l’IA non può replicare l’esperienza sensoriale e affettiva di un incontro umano. Ma non tutte le relazioni devono passare per il corpo per essere autentiche o utili. Gli adolescenti come gli adulti di oggi si connettono con persone, idee e comunità tramite spazi digitali che per loro sono reali tanto quanto quelli fisici. L’IA può offrire una relazione simbolica, cognitiva, e inizialmente anche consulenziale, che non sostituisce ma integra quella umana, specie in una fase iniziale di difficoltà o isolamento.
3. Dipendenza o strumento? Dipende dall’educazione
"L'IA è una dipendenza peggiore del fumo e dell'alcol. Ti chiude al mondo esterno."
Il termine “dipendenza” è forte e va maneggiato con cautela. Parlare di intelligenza artificiale come “droga” rischia di semplificare un problema molto più complesso. La dipendenza non nasce dalla tecnologia in sé, ma da fragilità preesistenti, disagi relazionali, carenze affettive o contesti familiari disfunzionali. Negli anni, abbiamo visto forme di dipendenza adulta ben più radicate e distruttive: da sostanze come alcol, nicotina e droghe a comportamenti compulsivi come disturbi alimentari, shopping ossessivo, gioco d’azzardo, pornografia o relazioni tossiche. In tutti questi casi, il nodo centrale non è tanto l’oggetto della dipendenza, ma il vuoto psicologico o emotivo che la persona cerca di colmare. La cosiddetta “dipendenza tecnologica” spesso si manifesta in soggetti che non hanno altri canali di espressione, ascolto o accettazione. L’IA e il mondo digitale diventano quindi spazi di rifugio, non cause dirette del malessere. Inoltre, non tutta l’interazione con la tecnologia va automaticamente letta come patologica: esistono usi intensi ma funzionali, specie in ambiti creativi, educativi o sociali.
4. Autonomia possibile anche con l’IA
"L’IA non emancipa, non favorisce l’autonomia, crea dipendenza. Lo psicoterapeuta aiuta a crescere, l’IA no."
Anche qui si confonde lo strumento con l’uso che se ne fa. Esistono applicazioni di IA, comprese alcune chatbot terapeutiche (vedi studio dell’Università di Dartmouth, NH), che sono strutturate proprio per aiutare l’utente a riflettere, a porsi domande, a sviluppare pensiero critico. Certo, non tutti i sistemi sono uguali. Ma un’IA ben progettata può diventare un "coach digitale", un supporto alla crescita e all’autonomia personale. La tecnologia non deve sostituire il terapeuta, ma può essere un ponte, un primo passo verso il percorso terapeutico. Esistono, inoltre, diverse app e chatbot progettati per monitorare e prevenire dinamiche compulsive nei confronti delle tecnologie stesse, andando ad esempio a riconoscere segnali di disagio emotivo, suggerire pause digitali, stimolare la riflessione sul proprio comportamento online ed indirizzare verso risorse terapeutiche reali.
5. Il desiderio d’immortalità è umano, ma può motivare il cambiamento
"I giovani e adulti possono rifugiarsi nel virtuale per sfuggire alla paura della morte. È un’illusione di immortalità."
Il bisogno di lasciare un segno è universale. I giovani trovano nei social, negli avatar, nei contenuti digitali, un modo per costruire identità, dare senso e cercare continuità. Non è molto diverso dal voler pubblicare un libro o scrivere su un muro. Piuttosto che demonizzare questo bisogno, possiamo usarlo come leva educativa, spingendo i giovani a creare contenuti significativi, riflessivi, a interrogarsi sul proprio ruolo nel mondo digitale e reale. Il virtuale può essere uno spazio creativo, non solo evasivo, così anche per gli adulti.
6. Educazione al virtuale: sì, ma condivisa
"Serve l’Educazione al Virtuale per tutti. Siamo in ritardo."
Questa è forse la critica più costruttiva di tutte. Serve, ed è urgente. Ma anche qui, l’IA non è il problema, bensì parte della soluzione. Un’educazione al digitale fatta bene può includere l’uso dell’intelligenza artificiale come strumento di apprendimento, di organizzazione dello studio, di sviluppo del pensiero critico. Educare al virtuale non significa solo dire cosa NON fare, ma anche come sfruttare il potenziale positivo di questi strumenti.
Conclusione: Non Paura, ma Responsabilità
Demonizzare l’intelligenza artificiale è una scorciatoia emotiva. Serve invece una riflessione più ampia e sfumata: l’IA non è né salvatrice né mostro. È un mezzo potente, e come ogni mezzo, può essere usato per il bene o il male.
7. Formazione, non repressione
"I giovani devono essere aiutati a formarsi ed agli adulti occorre supporto.”
Completamente d’accordo. Ma questo non esclude l’IA, anzi. L’intelligenza artificiale può amplificare il lavoro di supporto psicologico, offrendo strumenti di auto-valutazione, di prevenzione, di primo aiuto. Può essere un supporto agli educatori, non un sostituto. Pensare alla tecnologia come a un nemico è un approccio superato: è nella formazione all’uso che si gioca la vera partita, non nella sua eliminazione. È nel supporto psicologico che possiamo investire.
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